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Ma tu, perché giudichi tuo fratello?

 

Luca 6,36-42

Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro.
Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato.
Date, e vi sarà dato; vi sarà versata in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura con cui misurate, sarà rimisurato a voi». Poi disse loro anche una parabola: «Può un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?
Un discepolo non è più grande del maestro; ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell'occhio tuo? Come puoi dire a tuo fratello: "Fratello, lascia che io tolga la pagliuzza che hai nell'occhio", mentre tu stesso non vedi la trave che è nell'occhio tuo? Ipocrita, togli prima dall'occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello».

 

Romani 14,10-13

Ma tu, perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello?
Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio; infatti sta scritto: «Come è vero che vivo», dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio.
Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un'occasione di caduta.

 

 

Care sorelle, cari fratelli, oggi, quinta Domenica dopo Pentecoste, le Losunghen, la cui versione italiana è nota come lezionario Un giorno, una parola, propongono alla nostra riflessione le due letture del Nuovo Testamento che abbiamo ascoltato, molto conosciute, rivolte a ciascuna/o di noi in modo esplicitamente diretto e personale. Questo solo per precisare che non si è trattato di una scelta volontaria, anzi, giorni fa, quando per preparare questo culto ho letto questi passi mi sono un po’ preoccupato da un lato perché sono talmente chiari che nel commentarli vi è il rischio di dire delle banalità e cose già ripetute e dall’altro perché vanno a “pizzicare” le corde più intime della nostra essenza umana e interrogano nel profondo la nostra coscienza di credenti e di appartenenti ad una comunità fondata sulla fede in Gesù Cristo.

Troppo facilmente ci dimentichiamo di questi insegnamenti e dell’atteggiamento e del comportamento che il Maestro ci chiede di esercitare nella nostra vita quotidiana. Troppo spesso ci dimentichiamo delle parole di Gesù nella parabola dell’Evangelo di Luca, perché, ammettiamolo con sincerità, sono scomode e nient’affatto semplici da accettare, eppure …..dovremmo affrontare ogni giornata che il Signore ci dona tenendo ben presente le domande dell’apostolo Paolo nell’Epistola ai Romani. Insomma siamo un po’ come i bambini piccoli quando fingono di non udire o di non ricordare le indicazioni e gli insegnamenti impartiti dei genitori per il loro bene e la loro sicurezza, pretendendo di fare di testa propria con la conseguenza di cacciarsi in qualche guaio. Non vi è dubbio che i guai e i danni non soltanto materiali ma soprattutto spirituali che possiamo fare agli altri e a noi stessi ergendoci a giudici e formulando condanne, disprezzando o anche semplicemente alimentando incomprensioni sono molto più consistenti, profondi e duraturi, sia verso coloro con i quali ci relazioniamo nella vita di tutti giorni sia soprattutto all’interno della comunità di cui facciamo parte, nella quale dovrebbe sempre prevalere la condivisione fondata sulla fede.

La parabola di Luca ci dice in modo assertivo e perentorio: Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Il passo di Romani ci pone di fronte alla stesso tema usando la forma interrogativa mediante due quesiti talmente diretti che non lasciano scampo, rileggiamoli : Ma tu, perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello?
Queste due domande poste al versetto 10, non sono formulate in modo casuale, ma dopo che nei precedenti Paolo ha argomentato sui deboli e i forti nella fede qualificando i primi come coloro che avevano degli scrupoli riguardo ad alcune pratiche come mangiare solo verdura e riconoscere come speciali certi giorni della settimana piuttosto che altri.
C.E.B. Cranfield nel suo commentario alla Lettera ai Romani spiega i motivi delle divergenze tra i deboli ed i forti nella fede secondo questi termini: mentre i forti erano coloro che avevano riconosciuto che, con la venuta di Gesù, scopo, sostanza e significato più profondo della legge dell’Antico Testamento, non si richiede più di ubbidire letteralmente alle parti cerimoniali in esso previste, i deboli erano invece convinti di esprimere la loro fede, la loro risposta a Gesù, anche attraverso l’ubbidienza letterale alla legge cerimoniale. Quindi non si tratta di una debolezza nei fondamenti della fede cristiana ma rispetto alla certezza che la propria fede permetta di compiere determinate azioni. E comunque si tratta di una serie di questioni, non fondamentali, per cui nella comunità si sono creati motivi di disaccordo, probabilmente di discordia se non di vera e propria frattura al punto da costringere l’apostolo ad affrontarli nella sua lettera in modo così risoluto e incisivo.

Il verbo giudicare qui appare più volte e proprio con il significato che ancora oggi ha nel nostro ordinamento civile e penale. Si tratta del giudizio formulato ed espresso da un tribunale, presieduto da un giudice e comporta un sentenza che può essere di assoluzione o di condanna, una risoluzione che comunque lascia un segno nella vita del soggetto sottoposto a giudizio, tanto più profondo, talvolta indissolubile, quanto più grave è la pena inflitta in caso di sentenza di condanna.
Sappiamo che una società deve darsi leggi, norme, regole e strumenti per garantire il rispetto dei diritti fondamentali a tutti i cittadini, in primo luogo il diritto al lavoro, alla tutela della salute, all’istruzione, alla libertà religiosa e di conseguenza le nostre società si sono date anche degli ordinamenti, tra cui quello giudiziario, che attraverso l’applicazione del corpus normativo devono garantire a tutte le persone il rispetto di questi diritti – anche se spesso questo non avviene o non si attua nei modi soddisfacenti e nei tempi giusti. Purtroppo l’uguaglianza di tutti i cittadini di fonte alla legge, anche nei paesi democraticamente più avanzati come il nostro, non è sempre completamente realizzata, un problema che ci porterebbe ben oltre questo contesto, anche se è sempre bene ricordare quanto i diritti siano fragili, quanto la loro conquista abbia richiesto dolore e sacrifici alle passate generazioni e in quante parti del mondo ancora oggi tanti esseri umani vivono senza dignità senza diritti.

Ma l’Apostolo Paolo ci costringe a riflettere secondo categorie differenti da quelle umane della società civile, a muoverci in uno spazio dimensionale molto diverso e, nel caso in cui ce ne fossimo dimenticati, ci avvisa che tutti compariremo di fronte ad un tribunale speciale e unico, quello di Dio e citando Isaia 45,23 ci ricorda che: «Come è vero che vivo», dice il Signore, «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». Nella dimensione della fede in Dio, nell’attesa fiduciosa dell’avvento dell’instaurazione del suo Regno di pace e giustizia, l’unico tribunale esistente è quello di Dio di fronte al quale tutti dovremo comparire per rendere conto di noi stessi, direttamente a Lui, faccia a faccia noi e Lui, soli.

Questa immagine, interpretata figurativamente nel mondo dell’arte in tanti modi quasi sempre pieni di drammaticità, a prima vista potrebbe apparire veramente inquietante, terribile e annichilirci facendoci pensare alle scene del fuoco, dello stridore dei denti e della condanna irreversibile. Invece, a mio avviso, se interpretata alla luce dei versetti di questo passo della Lettera ai Romani ci rivela un significato profondo che deve aumentare in noi la certezza della misericordia di Dio e la fiduciosa attesa nel Suo ritorno liberatorio.

Per prima cosa vorrei osservare che l’invito a «non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un'occasione di caduta» letto insieme al richiamo che «ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio» ha un effetto rassicurante. Nessun altro potrà interferire con i propri giudizi e le proprie valutazioni, dobbiamo e dovremo rendere conto direttamente a Dio, non agli uomini. Mentre la nostra logica umana è condizionata dall’egoismo, dalla superbia e dalla poca sensibilità quella di Dio è completamente diversa. Dio è il Padre che si prende cura di noi, il suo Spirito è sempre all’opera e i suoi piani sono imprevedibili e incomprensibili ai nostri ragionamenti e per le nostre categorie mentali.
Dio, le cui risposte alle nostre domande ci rivelano l’immenso dono della Sua grazia immeritata e gratuita, come quella indicata da Gesù in Matteo18, quando Pietro, convinto di dire una cosa buona e giusta, gli chiede: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» e Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».
Dio, che non rifiuta di farsi coinvolgere da Abramo in Genesi 18 in una lunga trattativa prima di distruggere Sodoma e che, incalzato dalle sue ripetute e insistenti domande, dichiara di essere disposto a salvare la città anche se vi si trovassero solo cinquanta giusti fino a scendere via via a soli dieci. Dio, che ci ha dato il suo Figlio che sulla croce, al ladrone che gli chiede di ricordarsi di lui quando entrerà nel Suo regno, risponde «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso». La penultima frase pronunciata da Gesù prima di rimettere lo spirito al Padre è una parola di perdono e non di condanna, di salvezza e non di disprezzo, di vita e non di morte.

Questo passo di Romani è un invito all’umiltà tra fratelli e sorelle, il non giudicare, il non disprezzare, ma al contrario il perdonare come abbiamo letto in Luca. Saremo soli di fronte al tribunale di Dio, ma non avremo accusatori, come invece ha avuto Gesù davanti al Sinedrio e a Ponzio Pilato, e avremo il più grande avocato difensore, Cristo Gesù morto sulla croce per lavarci dai nostri peccati e per donarci la salvezza.

In secondo luogo, Paolo per raffigurare il tribunale di Dio non cita uno dei tanti passi di distruzione e di condanna di cui è disseminato l’Antico Testamento, ma si avvale di questo versetto di Isaia che dice «ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio». Un’immagine rassicurante di pace e di lode, un’immagine corale nella quale:
- “ogni ginocchio” indica l’assenza di distinzioni di sesso, di colore della pelle, di collocazione nella scala sociale, di istruzione, di potere;
- “ogni lingua” richiama la molteplicità di lingue dissonanti e tra loro incomprensibili, che a causa di Babele si sono abbattute come una maledizione sul genere umano, ma che poi si sono trasformate, grazie allo Spirito Santo della Pentecoste, nella pluralità delle lingue che annunciano l’Evangelo e ci ricorda che saranno finalmente unite in un coro polifonico per dare gloria a Dio. Questo è il tribunale di Dio e questa è la prospettiva attraverso la quale siamo chiamati a vederlo.

Con questo non voglio dare un’interpretazione edulcorata e riduttiva della responsabilità che abbiamo. L’invito a non giudicare e non disprezzare e il tribunale come evento risolutivo di umiltà, tutte le ginocchia che si piegano, e di lode al cospetto della gloria di Dio sono degli appelli che ci vengono rivolti al fine di vivere la nostra fede in Gesù Cristo nella consapevolezza che dobbiamo rendere conto direttamente a Dio se siamo stati dei buoni e fedeli servitori, se abbiamo fatto tutto quanto possibile per seguire la sua volontà e questo comporta anche anzi in primo luogo prendersi cura, avere attenzione per ciascuno delle nostre sorelle e dei nostri fratelli con sincerità, anche riprendendo e correggendo, ma sempre con pazienza, con empatia, ovvero cercando di comprendere lo stato d’animo altrui, le cause che possono aver determinato un certo comportamento, con amore e condivisione.

Paolo apre il capitolo 14 della Lettera ai Romani con l’invito «Accogliete colui che è debole nella fede» e il versetto 36 del capitolo 6 dell’Evangelo di Luca afferma «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro». Accoglienza e misericordia sono due parole oggi molto di moda. Essere misericordiosi non è semplicemente provare un sentimento di compassione, ma significa condividere la condizione dell’altro, comprendere l’altro, farsi vicino all’altro quindi anche accogliere l’altro. In questi ultimi anni la disastrosa condizione dei migranti spinti a lasciare i loro paesi dalle precarie condizioni economiche, dalle guerre e dalle violenze ci hanno resi familiari questi termini che denotano un atteggiamento e un comportamento che non è di esclusiva pertinenza di noi cristiani perché può essere riscontrato in tanti cosiddetti “non credenti”. Voglio dire che saper accogliere non è una prerogativa esclusiva dei cristiani, anzi abbiamo dato prova tangibile del contrario in più di un’occasione.

Non si impara ad accogliere e ad essere misericordiosi da un momento all’altro, occorre un esercizio continuo. Noi che ci definiamo cristiani e che partecipiamo più o meno assiduamente ai culti, noi valdesi/riformati che seguendo l’eredità delle generazioni passate siamo radicati sulla Parola di Dio siamo chiamati all’accoglienza degli altri e alla misericordia verso gli altri proprio perché attraverso la lettura quotidiana della Scrittura e la preghiera personale rinnoviamo ogni giorno il fondamento della nostra fede in Gesù che a questo ci chiama e direi ci obbliga in virtù del sangue versato sulla croce per noi.

Ma vorrei concludere ricordando che sovente nei nostri sforzi di adempiere a questo compito nella nostra vita famigliare, lavorativa e nell’ambito dei nostri rapporti interpersonali e affettivi ci dimentichiamo di appartenere anche ad una comunità, anzi a due: quella più modesta e ristretta della nostra chiesa valdese di Firenze e quella invisibile di credenti in Gesù Cristo, nonostante le differenze teologiche e di tradizione che tuttora permangono nelle varie confessioni. Anche in questi ambiti e prima di tutto a partire dalla nostra comunità dobbiamo sforzarci di mettere in pratica quanto indicato da Paolo: «smettiamo di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un'occasione di caduta». Siamo chiamati ad accoglierci, ad usare misericordia gli uni gli altri e come Paolo afferma in Galati 6,2 a portare «i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo»

La nostra capacità di testimonianza dell’Evangelo, l’efficacia della nostra evangelizzazione al mondo nel quale viviamo, ma al quale non apparteniamo poiché apparteniamo a Cristo, possono trovare nuova convinzione, nuova spinta propulsiva, forme e linguaggi rinnovati, energie accresciute solo se saremo capaci di abbandonare i pregiudizi ed i risentimenti personali, se saremo capaci di accoglierci e comprenderci gli uni gli altri rinforzando reciprocamente la nostra fede e le nostre debolezze, sforzandoci di essere una comunità coesa al servizio del Signore Gesù nostro salvatore.
Che lo Spirito del Signore ci guidi e ci aiuti a rinnovare ogni giorno questo impegno nel nostro cammino insieme. Amen

Valdo Pasqui Chiesa Evangelica Valdese di Firenze - Domenica 19 Giugno 2016

 

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Ultimo aggiornamento: 25 Giugno 2016
 ©Chiesa Evangelica Valdese di Firenze